Demetra apre in questa sezione uno spazio di dibattito sul ruolo ed il senso della   cooperazione sociale.
Il  percorso è condiviso con altre realtà cooperative, Il Loto, Officina, Ozanam, Naturcoop, Futura, Sommozzatori della Terra, Charis .
Con alcune  sta iniziando un percorso di confronto scambio, per altre  invece il confronto su tematiche comuni è attivo da tempo.Il confronto è aperto: i contributi che  leggerete  sono stimoli e suggestioni che ci aiutano a cercare meglio di capire  il senso e  la rotta.
Chi, parlando del Non-Profit, sostiene:
Come una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna l’opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare.
Che cosa hanno in comune un’università non statale e un doposcuola in quartieri degradati? Un centro fitness e un’organizzazione sportiva per disabili? Un pub e una mensa per i poveri? Una clinica religiosa e un’associazione di volontariato sanitario? Per tutti è ovvio che siano organizzazioni preziose perché non distribuiscono utili, favoriscono la coesione sociale e rispondono ai bisogni dei più deboli. Il loro contributo all’interesse generale, però, non è scontato. Una teoria difettosa ha, infatti, unito in un insieme magmatico iniziative della massima utilità sociale, altre genericamente positive e altre che utilizzano a fini propri l’alone di benemerenza di cui questo insieme gode.
L’ha detto:

  1. Un economista iperliberista
  2. Un estremista del welfare state anni ‘70
  3. Quel dirigente comunale (proprio quello là…) 😉
  4. Nessuno dei precedenti

La risposta giusta è la 4.
Si tratta, infatti, della presentazione ufficiale (dal sito di Editori Laterza) del libro “Contro il Non-Profit”, di Giovanni Moro, sociologo ed ex Presidente di Cittadinanzattiva.
E’ un bel libro, polemico quanto basta, che mette il dito su una questione davvero molto, molto “impegnativa”: come misurare l’impatto sociale delle organizzazioni non profit?
Lavoro Bene Comune Impatto Sociale
In Italia, stando a una ricerca di Sodalitas, solo un terzo delle non profit misura il proprio impatto sociale.
Ciò significa che la cultura che ci porta a ritenerci “buoni di diritto”, senza dover dimostrare alcunché, è in realtà diffusissima.
E guai a metterlo in discussione!
Di là dalle regioni di ordine etico, il tema della misurazione dell’impatto sociale promette di assumere un rilievo primario nel prossimo futuro, almeno per due ragioni:

Nel testo del disegno di legge troviamo, infatti, l’idea “dell’impresa sociale quale impresa privata a finalità d’interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale, utilizzando prioritariamente i propri utili per il conseguimento di obiettivi sociali” (art.4 c.1 lett.a).La capacità di dimostrare un impatto sociale potrebbe essere fondamentale, nel prossimo futuro, per le possibilità di finanziamento delle imprese sociali.

Questa struttura ha l’obiettivo di promuovere nei singoli Paesi aderenti lo sviluppo e la diffusione degli investimenti ad impatto sociale: con quali criteri gli stati e i fondi che intendono sostenere lo sviluppo sociale potranno valutare l’impatto delle risorse erogate?
L’approccio del primo rapporto prodotto dalla Task Force è eminentemente anglosassone: domina una cultura pragmatica, oggettivante, quantitativa.
Chi, almeno un po’, padroneggia tematiche valutative (ma basta un po’ di buon senso) sa che non tutto si può misurare.
L’aspetto relazionale e di crescita personale, così centrali nei nostri servizi, per esempio, non si possono misurare…caso mai si possono descrivere, utilizzando metodologie e strumenti qualitativi.
Tra un estremo e l’altro dovremo cercare di trovare una sintesi, se non vogliamo subire culture valutative che non ci appartengono e non ci permettono di evidenziare il reale impatto che creiamo nella società.
Come possiamo fare?
Avremmo a disposizione il Bilancio Sociale che, se ben congegnato, potrebbe essere una buona soluzione di accountability, con contenuti quantitativi, qualitativi, in un’ottica etero referenziale.
Ma si tratta di un documento che ha perso, innegabilmente, appeal…soprattutto da quando, in sempre più regioni d’Italia, è diventato obbligatorio: il calo di motivazione che viviamo quando uno strumento da volontario diventa norma di legge la dice lunga rispetto alla forma mentis dei governanti italiani, ma anche rispetto alla lungimiranza dei nostri cooperatori…
Quali altri strumenti utilizziamo e/o possiamo progettare?
Ci dice Graziano Torti, Presidente di Cooperativa Sociale Charis <<Personalmente ho un trauma da valutazione. Sono vittima della frenesia di valutazione che tra la fine degli anni 90 ed i primi 2000 ci costrinse a “misurare” i percorsi di inserimento lavorativo: definizione degli obiettivi, delle strategie e valutazione di cosa ne era venuto fuori. Il problema era che, mancando strumenti di valutazione scientificamente validati caratteristici dei nostri obiettivi, che sono legati all’inserimento lavorativo, siccome bisognava valutare per forza, si dovevano usare strumenti presi da altri ambiti dei servizi alla persona: ad uno che era venuto lì a lavorare bisognava misurare ansia, autostima, attitudine a delinquere e tutta una serie di stati d’animo che c’entravano poco con il nostro lavoro. Inoltre, per la mia posizione in merito al mio ruolo, questi percorsi valutativi risultavano assolutamente invasivi e fuorvianti rispetto al nostro lavoro: quando anche avessi rilevato che un lavoratore aveva l’ansia, non disponevo di alcuno strumento professionale per farci qualche cosa.
Questo problema di sovrapposizione di strumenti ed ambiti, tormenta poi una buona parte dei rapporti istituzionali tra la cooperazione di tipo B ed il resto del mondo. Siccome siamo sociali, molto spesso il nostro scopo sociale è percepito come molto più sbilanciato sul servizio alla persona che non sull’inserimento lavorativo, come se tutti i nostri lavoratori avessero disabilità gravissime per cui, lungi dal poter ottenere uno status di lavoratori, necessitassero continui supporti di natura educativa e psicologica.
Come insomma, se il lavoro, di per se, non avesse sufficiente dignità.
Da qui pero’, nasce anche a me una domanda. Non siamo i detentori nè del lavoro, nè dell’inserimento lavorativo. La quantità di inserimenti lavorativi di persone svantaggiate si attesta su percentuali ad una cifra rispetto al totale degli inserimenti, che per lo più avvengono in aziende per gli obblighi della 68.
Quindi cos’è che dobbiamo misurare? Ce lo abbiamo un impatto tutto nostro, peculiare, che ci consenta realmente di misurare qualcosa senza dover produrre immagini stucchevoli?
Temo che questa domanda metta in campo pero’ qualcosa di ben più corposo ed ansiogeno: ma che ruolo abbiamo?>>.
Per Paolo Cova, Direttore di Naturcoop, <<Una valutazione lavorativa occorre farla con strumenti il più possibile oggettivi, altrimenti come capiamo se una persona è migliorata? Su cosa? Non mi farei trascinare dalle pratiche valutative dei nostri amici “clinici” ma dalla nostre abilità di lavoratori e lavoratori in cooperativa sociale di inserimento lavorativo, altre valutazioni … le facciano loro. Interessante il richiamo di Graziano, al nostro ruolo: da qui ancora una volta si riparte MA questa volta con convinzioni più radicate.
Concludendo: se vogliamo strumenti per dialogare con i nostri clienti pubblici e non solo, forse un monitoraggio e una valutazione finale occorre farla e pensarla bene bene>>.
Dalle parole dei due cooperatori varesini emergono i tre punti focali, i tre interrogativi fondamentali che caratterizzano i ragionamenti intorno all’Impatto Sociale delle cooperative di inserimento lavorativo.
1) L’oggetto (cosa valutiamo, quale campo di esperienza)
2) Il senso del processo valutativo (perché valutiamo e a chi interessa)
3) Gli strumenti di valutazione
Riprenderemo i tre punti nei prossimi post.
Per il momento, il dibattito è aperto!
Tratto da: http://lavorobenecomune.wordpress.com/2014/10/10/misurare-limpatto-sociale/