Lanciato sul mercato statunitense nel 1974 dalla Monsanto con il nome Roundup, oggi è usato dappertutto. È diventato uno degli strumenti più importanti dell’agricoltura convenzionale. I coltivatori statunitensi di mais, i produttori indiani di cotone, i magnati argentini della soia, i cerealicoltori tedeschi: tutti irrorano i loro campi con il glifosato. Quest’erbicida uccide la stellaria e la poa, il farinello comune e il cardo asinino.
Stermina praticamente tutti i tipi di malerba, in ogni angolo del pianeta. E in alcuni casi non solo le malerbe. Da tempo ci sono voci, segnali, indizi – da prendere più o meno sul serio – sul fatto che il glifosato sia dannoso anche per gli animali e gli esseri umani.
Punti controversi che hanno fatto scoppiare intorno al diserbante una vera e propria battaglia ideologica.
Il glifosato uccide, dev’essere messo immediatamente al bando, dicono gli ambientalisti.
Il glifosato salva vite umane, incrementa i raccolti agricoli e garantisce l’alimentazione a livello globale, rispondono i rappresentanti degli agricoltori e le associazioni degli industriali. Per molto tempo, però, è mancato in questa battaglia tra agricoltura biologica e convenzionale un organo scientifico che emettesse un verdetto e distinguesse tra verità e propaganda.
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Poi nel marzo del 2015 ha preso la parola la IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, un organismo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Dopo un accurato esame della letteratura scientifica, l’agenzia IARC è arrivata alla conclusione che il glifosato è “probabilmente cancerogeno”. Allarme arancione quindi, quasi rosso, che a quanto pare è arrivato proprio al momento giusto, visto che nei prossimi mesi la Commissione europea dovrà decidere se continuare ad autorizzare l’uso del glifosato.
Poco dopo il verdetto della IARC, anche l’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bundesinstitut für Risikobewertung, Bfr) ha reso pubbliche le sue conclusioni: il glifosato, ha affermato, “non è cancerogeno”.
Infine alla metà di novembre l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), che ha sede a Parma, ha condiviso quest’opinione, dichiarando che il glifosato è “probabilmente non cancerogeno”.
Probabilmente cancerogeno. Probabilmente non cancerogeno.
Un conflitto tra ecologisti e lobbisti dell’industria agraria si è trasformato in uno scontro tra scienziati. Nel mezzo si trovano politici e consumatori, e tutti si chiedono chi abbia ragione. Il glifosato nuoce davvero alla nostra salute?
Alcune analisi ufficiali sugli alimenti hanno individuato tracce del diserbante nei funghi Pleurotus, nel cavolfiore, nelle fragole, nei pompelmi, nei limoni, nelle arachidi, nei fichi, nelle lenticchie, nei porri, nei fagioli pinto, nelle patate, nel frumento, nella segale, nell’orzo e nell’avena. Nel 2012 la rivista Öko-Test aveva cercato il glifosato in diversi prodotti a base di cereali. In quattordici campioni su venti – tra cui farine d’avena, farine di frumento e pane – aveva individuato tracce del diserbante.
Si tratta di alimenti che quasi tutti mangiano ogni giorno e ha dell’incredibile che questa sostanza resista anche al processo di cottura.
Inizialmente era impiegato soprattutto prima della semina per liberare i campi dalle erbacce.
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Da quando esistono le piante geneticamente modificate resistenti al glifosato, questo diserbante può essere usato anche dopo la semina. Il glifosato è venduto in tutto il mondo soprattutto dalla Monsanto, che produce anche i cereali modificati resistenti al pesticida.

In che modo gli scienziati esperti di tumori dello IARC sono arrivati alla conclusione che il glifosato è “probabilmente cancerogeno”?.
Dall’inizio degli anni settanta la IARC ha esaminato un migliaio tra sostanze chimiche, generi alimentari e di conforto e fattori ambientali come i raggi ultravioletti e le polveri sottili. La procedura è stata sempre la stessa, anche per il glifosato.
Kathryn Guyton tossicologa capo della IARC dice: “Non facciamo eccezioni”. Per emettere il loro giudizio, gli scienziati della IARC hanno passato in rassegna tutti gli studi pubblicati sulle riviste scientifiche a proposito del glifosato. Osserva Guyton, “vediamo uomini forti e sani che vanno nei campi e poi sviluppano un tumore”. Il rischio per gli anziani, i malati e i bambini, continua la tossicologa, potrebbe essere molto più alto. Nell’esaminare la questione bisogna sempre tenere presente queste fasce di popolazione.
Alcuni dati provengono dalla Colombia. Qui il governo ha impiegato il glifosato più volte per distruggere vaste piantagioni di coca. Durante gli esami svolti sugli abitanti delle zone irrorate sono state rilevate alterazioni genetiche delle cellule ematiche, danni che possono indurre una cellula a dividersi in modo incontrollato e possono essere all’origine di un tumore.
Sorge allora la domanda: com’è possibile che il Bfr e l’Efsa siano arrivati a conclusioni diametralmente opposte?
Bisogna dire che per formulare il suo giudizio l’Efsa si è basata ampiamente su un rapporto del Bfr. Il verdetto è stato quindi pronunciato dall’istituto tedesco
Il rapporto del Bfr sui possibili effetti tossici del glifosato è lungo 947 pagine, cosa che può dare un’impressione di notevole accuratezza. Ma a uno sguardo più attento si nota che a stilare il documento non è stato il Bfr. Il rapporto è stato scritto dalla Glyphosate task force. Sembra il nome di un’équipe interdisciplinare, ma anche questo sarebbe un errore.
La Glyphosate task force è un gruppo in cui collaborano i produttori di fitofarmaci o, meglio, le aziende che hanno chiesto di poter vendere il glifosato nei paesi dell’Unione europea. Il rapporto di 947 pagine consiste sostanzialmente in una serie di riassunti di studi commissionati da quelle aziende per indagare gli effetti del glifosato sulla salute. Questi studi non sono mai stati pubblicati e molti dati, come il nome degli autori e i laboratori in cui sono stati effettuati, sono stati cancellati nel rapporto del Bfr. Quello che invece è chiaramente leggibile è la conclusione finale: non cancerogeno.
Eppure, proprio su questa argomentazione si fonda il giudizio che il Bfr continua a sostenere: “Non cancerogeno” o, nella formulazione leggermente più cauta dell’Efsa, “probabilmente non cancerogeno”. Sarebbe bello se i dipendenti del Bfr spiegassero perché attribuiscono uno scarso valore ad alcuni studi e ne respingono altri ricorrendo a un’argomentazione dubbia.
Ma nonostante le richieste ripetute, l’istituto rifiuta di rilasciare interviste sul glifosato.
 
All’inizio di dicembre sono scoppiate le proteste. È stata inviata una lettera aperta ai giornali. Il destinatario era il commissario europeo per la salute Vytenis Andriukaitis. I mittenti erano novantasei scienziati tra epidemiologi, tossicologi, studiosi di biologia molecolare ed esperti di statistica di centri di ricerca sul cancro e di università di venticinque paesi diversi. Il messaggio era: il modo in cui le autorità europee stanno affrontando la questione del glifosato è “scientificamente inaccettabile”, le conclusioni non sono giustificate dai dati disponibili e non c’è trasparenza su come sono state raggiunte.
Se non fosse per il regolamento dell’Unione europea numero 1107 del 2009, che riguarda l’immissione di prodotti fitosanitari sul mercato. Secondo questo testo, una sostanza può essere autorizzata solo se non è stata classificata come sicuramente o probabilmente cancerogena.
Come prova bastano, dice il regolamento numero 1272 del 2008, due esperimenti sugli animali, indipendenti l’uno dall’altro, che stabiliscano un nesso causale tra un determinato agente e un’incidenza elevata di tumori.
È il caso del glifosato.
Alla base di questa norma severa c’è l’idea che il singolo consumatore può decidere da solo quanta carne rossa mangiare, quanto alcol bere o quante sigarette fumare. Il caso di un pesticida come il glifosato è invece diverso. A meno di non nutrirsi esclusivamente di prodotti biologici, nessuno può capire neanche lontanamente quale sia la quantità di diserbante che assimila con il cibo. A questo punto bisogna esaminare ancora una volta il lavoro della IARC. La domanda specifica posta dai ricercatori è se una certa sostanza favorisca lo sviluppo di tumori. Anche quando la loro risposta è “probabilmente sì”, come nel caso del glifosato, questo non dice niente riguardo alla probabilità che la malattia insorga davvero.
Il livello di rischio dipende in particolare dall’intensità e dal periodo di esposizione di un certo soggetto alla sostanza in questione, dalla quantità assorbita dal suo organismo.
 
Liberamente tratto da un articolo di Anke Sparmann, pubblicato su Die Zeit in Germania pubblicato su Internazionale 1141 del 19 Febbraio 2016
 

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